mercoledì 15 settembre 2010

In ricordo di Pietro Calabrese



di Pietrangelo Buttafuoco
Il Foglio, 14 Settembre 2010


Col naso in aria. Così stava Pietro Calabrese. Per ammirare i puttini di Micio Tempio, poeta, diciamo così, sporcaccionciello. Erano, infatti, nudi. Col culetto impettito e il cosino in mano. Anneriti dalla fuliggine di Etna. Ma col cosino sfrontatamente in mano. Affaticati dal viziaccio porco. Sono fonte di un imbarazzo ormai secolare. Da lì, sotto quel balcone, ci passa la processione di S.Agata. Ma – se si ragiona al modo dei viaggiatori curiosi ¬– sono anche un capolavoro di poesia e di disordine sociale. Così se li guardava Pietro Calabrese, rallegrato di trovare nella pubblica strada un’allegoria neppure troppo sfumata se poi era la dura pietra lavica a tenerli lì, quei tre puttini, veri e propri porcellini manovratori di solitari, testimoni di una beffa infinita.
Col naso in aria e il taccuino Moleskine in tasca. Gli occhi vigili e la mente a mille, a tremila, a tutta velocità per catturare un istante che generasse la pagina nitida. Così faceva Pietro Calabrese in quella passeggiata dove tutto – fosse pure una città, un paio di amici e il declinare del giorno – tutto appunto gli si offriva per suo diletto e letteratura e così, infine, godere. Così si prendeva il suo piacere Pietro Calabrese, puntando i suoi infiniti radar sulle faccende e le vicende di un pomeriggio improvvisato.
Col naso in aria. Ma anche a naso dritto. Al seguito di piccoli doveri sociali e di cerimonie degne di commedia, tipo, consegna della “Grolla d’Oro”. Tizi arrivati da chissà dove dovevano assolvere nel giro di soli dieci minuti al rito di premiazione per Giuseppe Tornatore e Pietro Calabrese che lo accompagnava, seduto su una poltrona, si prendeva il suo piacere studiandosi ogni faccia, ogni allocuzione, ogni inquadratura perché infine, quella “Grolla”, diventava un servizio del Tg, una foto-notizia, il frammento di quella beffa infinita che è il romanzo popolare dove ognuno è comparsa, primattore e servo di scena.
A naso chino, sulla sua pagine di Moleskine, Pietro Calabrese – giornalista sempre assai felice di suo – trasferiva il bozzetto, il canovaccio, anzi, la stesura di un’irresistibile favola comica.
Di suo naso sapeva trovare il bandolo di ogni aggrovigliata questione dell’umano. Così faceva Pietro Calabrese. Fissava lo zenith del suo privato mondo non conoscibile agli altri e diceva la sua. E la diceva giusta. Fosse pure con il pane e il companatico del lavoro, fosse pure con la corda pazza del sentimento. Fosse infine con la politica. E figurarsi quanto poteva divertirlo il viluppo arcitaliano. Di suo naso, Pietro Calabrese – uomo di mondo, libertino nel senso proprio della coscienza europea – scopriva la vena viva del sentimento popolare: si prendeva il suo divertimento studiandosi da vicino il Cavaliere, prendeva le misure agli uni e agli altri. E poi sapeva trovare il verso anche al non verso. E poi i ragionamenti, le luci, le idee, l’infinita beffa alla verità costituita giusto lui che sapeva come incendiare i cuori degli studenti quando a questi – e con Tornatore fu l’occasione giusta – capitava di parlare con uno come lui, lui che l’aveva trovata la strada giusta. Una strada fatta a sua immagine e somiglianza.
Se la spassava con la Roma enfia di gradassa prosopopea, Pietro Calabrese. Roma non ha mai avuto tre puttini col cosino in mano e Pietro che inventava un genere per l’Urbe, il tormentone del generone, se ne tornava al cielo suo di Gratteri, su quelle Madonie dove deve essersi ripresentato Empedocle, tanto è così commovente quella montagna, domus perfetta per la sua saggezza di uomo fatto.
Un naso regolare, dunque, quello di Pietro Calabrese. Proprio perfetto per il suo volto di maschio antico. Un naso da fiuto. Ed ebbe, infatti, sempre fiuto. Si scavò per sé una vita meravigliosa.

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