mercoledì 4 agosto 2010

In memoria di Lino Serrano






“Ehi, professore!”. Iniziavano così le sue telefonate da Milano o da Roma, con un immeritato appellativo; con la voce squillante, ma al tempo stesso composta, che manifestava il piacere di risentire un amico o un collega più giovane. Non so, in effetti, come mi considerasse Lino Serrano.
Lo avevo conosciuto una decina di anni fa, in occasione di un breve viaggio al Cairo. Tra piramidi e bancarelle del caotico mercato arabo, nell’albergo di lusso e tra i vicoli di Medina, si muoveva con consumata disinvoltura, capace di iniziare interminabili chiacchierate con chiunque. Mi sembrava il perfetto protagonista di un film di spionaggio, con quella sua eleganza e il portamento di stile anglosassone, favorito anche da un aspetto non proprio siciliano. In quei giorni non parlammo molto; io addirittura lo chiamavo Salieri perché non riuscivo a memorizzare il suo cognome. Eppure lo avevo già conosciuto grazie alle fotografie giovanili pubblicate nel libro di Aldo Motta per ricordare gli anni gloriosi di quei ragazzi di belle speranze che costituivano la redazione del Corriere di Sicilia. Mesi dopo Serrano-Salieri mi telefonò –e io quasi non mi ricordavo chi fosse- per annunciarmi il suo imminente arrivo a Catania, città che amava smisuratamente; più di Milano, dove viveva, e di Roma, dove si recava periodicamente. La sua irrequietezza di giornalista troppo presto costretto al riposo -era stato l’addetto stampa di un gruppo petrolchimico, condannato come operai e amministrativi ad una lunga cassa integrazione poi sfociata in un precoce pensionamento- lo costringeva ad un continuo sali-scendi dalla Lombardia alla Sicilia. Ogni pretesto era buono per ritornare nella sua città, ritrovare gli amici di sempre, cadere nella tentazione dei vizi che contraddistinguono i catanesi doc (granita, via Etnea, putia, chiacchiere, ricordi e progetti, la cena tra vip, Sant’Agata e il Calcio Catania).
Era una miniera di ricordi, un labirinto di storie e personaggi che riusciva a collegare a decenni di distanza e a raccontare con originale capacità. L’ufficiale dei carabinieri, conosciuto comandante di una sperduta tenenza in Sicilia e ritrovato quando era un pezzo grosso dei servizi segreti, o la parabola del fattorino diventato imprenditore di successo. Gli proposi di scrivere per il periodico della Provincia: con stile elegante raccontava una Catania che non c’è più, quando anche la povertà era poesia e la distruzione post-guerra era l’occasione per l’ennesima ricostruzione.
“Ehi, professore!” e mi proponeva un “do ut des” di notizie. Mi raccontava dell’ex commissario tecnico mondiale incontrato sull’autobus di Milano e subito agganciato, e della fastidiosa prosopopea con la quale il carneade catanese diventato sottosegretario l’aveva tenuto a distanza in un bar di Montecitorio.
Descriveva le cene del lunedì con Emilio Fede e, con fanciullesco orgoglio, mi anticipava la poesia che avrebbe letto, come da tradizione, in occasione della cena agatina a casa del barone Mario Ursino.
Ed io ricambiavo trasmettendogli le atmosfere di una città sommersa dai rifiuti e dal buio, della voracità dei nuovi vecchi della politica, di un presidente-tifoso che ha riportato la maglia rossazzurra ai fasti degli anni Sessanta.
Da alcuni mesi il silenzio, interrotto da una tremenda notizia; ambasciatore, un amico comune, suo “autista” personale, il fotografo Benedetto Spada.
Con lo stesso stile elegante che ha contraddistinto la sua vita, Lino Serrano se n’è andato, e quel “Ehi, professore!” mi mancherà.


Daniele Lo Porto

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