sabato 24 luglio 2010

Il dubbio per mestiere





E’ la tremenda casualità di un’estate palermitana, che fa scontrare un giovane cronista con la morte di un commissario, a far esplodere quel fuoco che porterà Attilio Bolzoni a diventare il giornalista italiano più preparato sull’universo mafioso e più brillante nell’affrontare inchieste “parallele” mai scontate, mai banali.
E’ il 21 luglio del 1979 quando a Palermo viene ucciso Boris Giuliano. Bolzoni è giovanissimo, da tempo fa il cronista “idrico”, corrispondente da Caltanissetta del giornale “L’Ora”. “Mi definivo idrico perché su cento articoli che scrivevo, novantanove erano dedicati all’acqua che non c’era.” racconta sorridendo “Arrivai a Palermo per una sostituzione ferie pochissimi giorni prima di quel fatidico 21 luglio; prima di allora non mi ero mai occupato di mafia. L’Ora era un giornale pomeridiano, quindi si andava a lavorare prestissimo. Alle sei del mattino, quando arrivò la notizia dell’omicidio, in redazione chi doveva esserci? Solo io, che ero il più giovane, e Gianni Lo Monaco, il più vecchio. Fummo i primi ad arrivare sul luogo del delitto. E quello fu il mio primo articolo sulla mafia. Non mi sono più fermato.”
E’ gentilissimo, Attilio Bolzoni, sempre rispettoso delle storie e delle persone. Ha all’attivo centinaia di articoli sull’argomento criminalità organizzata, e sei libri scritti ora con Giuseppe D’Avanzo ora con Saverio Lodato, fino all’ultimo, “FAQ mafia”, affrontato da solo.
Pamphlet che ha fatto molto parlare di sé ancor prima di arrivare in libreria, perché è proprio in questo suo ultimo lavoro che viene ribaltata la dinamica dell’attentato dell’Addaura a Giovanni Falcone. “La storia dei cinquantotto candelotti di dinamite che dovevano far saltare in aria il giudice è tutta da riscrivere. Vent’anni dopo, siamo in grado di dire che ci sono testimonianze e prove che rivelano un’altra verità rispetto a quella che allora ci venne servita, e che rafforzano l’idea della presenza di un “mandante di Stato”.
Bolzoni, è proprio questo il segreto di una carriera di giornalismo d’inchiesta come la sua? Dubitare sempre delle verità ufficiali?
“E’ un ingrediente fondamentale. Un giornalista non deve mai accontentarsi, deve sempre guardare oltre. Questo modus operandi dà spesso ottimi frutti.”
Tante persone ha incontrato Attilio Bolzoni, nella sua storia sempre legata a doppia mandata con la mafia. Mantenendo la schiena dritta e uno sguardo lucido. Sempre umano, però.
“Ho intervistato e parlato con molti figli di boss mafiosi” continua il giornalista “Sono sempre stato colpito da quello che è l’unico tratto distintivo che accomuna tutti. La loro consapevolezza di essere, comunque, finiti. Certi cognomi, Riina, Provenzano, Santapaola, costituiscono per loro qualcosa di insuperabile. Sono perduti, sia che decidano di mafiare, sia che decidano di non farlo. E quando parlo con queste persone, loro raccontano sempre se stesse come se parlassero di altri, con un atteggiamento di estraneità”.
Lei racconta anche storie di donne, di mogli e compagne di mafiosi, con una visione molto più ottimistica rispetto a come ne scriveva Leonardo Sciascia…
“Sì, perché io ho incontrato molte donne di mafia che sono state il punto di svolta nella vita dei loro compagni. Penso a Rita Simoncini, il vero motore del pentimento di Francesco Marino Mannoia. E poi un’altra donna, catanese: Margherita Gangemi, moglie del boss Antonino Calderone. Fu solo grazie a lei che iniziò a collaborare. Una gran parte delle speranze è sempre nelle mani delle donne”.

Maddalena Bonaccorso - Vivere, giovedì 15 Luglio 2010

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